L'ipotesi più fondata sulle origini del toponimo Larderia (conosciuto in passato anche con la variante Lardarìa, ancora presente nel dialetto) è quella che lo fa derivare dalla stessa radice del verbo greco αρδέυω/άρδω ("irrigare", "innaffiare") da cui, con epentesi dell'articolo (L'Ardaria), si ebbe appunto "Lardaria" con il significato di "luogo ricco di acque".
Tale ipotesi è rafforzata dal documento di dotazione della vicina Abbazia basiliana di Santa Maria di Mili (1092) in Mili San Pietro, in cui il Conte Ruggero I d'Altavilla, nell'indicare i confini del territorio abbaziale, ricorda "il grande fiume", identificabile chiaramente con l'odierno torrente Larderia.
Ulteriori ipotesi sono:
"luogo ove si produceva e conservava il lardo" o una "grasceta"(cioè una terra grassa e fertile) adibita alla pastura dei maiali o dei cinghiali.
dal latino Lardārĭa, nome femminile che indica "Colei che commercia o vende lardo o maiali" a ricordo forse di un'intera categoria di allevatori o di un'antica e florida attività economica particolarmente praticata in tali luoghi già al tempo dei Romani;
dall'espressione araba "Al-Ard Ariyah" cioè "La Terra (Al-Ard) della Libertà (Ariyah)";
dal greco "Ardaleia, Ardalìa" cioè "di Ardalo", figlio del Dio Efesto (o Vulcano) ritenuto il mitico inventore del flauto e dell'accompagnamento vocale con tale strumento;
dal nome femminile greco "Ardelis" cioe "L'Industriosa" da cui "Ardeleia, Ardelìa".
Per le due voci di derivazione greca potrebbe essersi prodotta l'agglutinazione dialettale della "L" iniziale con funzione di articolo (L'Ardalìa, L'Ardelìa) e la conseguente sostituzione di quella dell'ultima sillaba con una "R" originando pertanto la "Larderìa" odierna.
Tra passato
& presente
Le prime notizie risalgono al Trecento, nelle note delle Ratione Decimarum si trova menzionato il casale di Larderia (chiamato a volte Lardaria).
Dopo la rivolta antispagnola di Messina del 1674-78, il Vicerè di Sicilia, su ordine della Corona spagnola, confiscò i casali montani appartenenti al Senato della città zancleana, e li vendette nel 1684. I casali di Larderia, San Filippo Inferiore e San Filippo Superiore, furono acquistati da Luigi Moncada Montalto (1643-1703), figlio di Giacomo, II principe di Calvaruso, come riferito dall'atto di vendita conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo.[2] Il Moncada, su detti casali acquistati ebbe investitura del titolo di I principe di Larderia con privilegio dato dal re Carlo II di Spagna il 4 dicembre 1690, esecutoriato il 9 giugno 1691.
Nel 1727, l'imperatore Carlo VI d'Asburgo ordinò al Viceré di Sicilia, il cardinale Joaquín Fernández de Portocarrero, la ricompra da parte del Senato di Messina dei casali confiscati dalla Corona spagnola dopo la rivolta del 1674-78, e con questo provvedimento cessò il dominio feudale dei Moncada su Larderia, che con i suoi circa 700 abitanti divenne un municipio cittadino.[1][4] I Moncada conservarono il titolo di Principi di Larderia, che però passò in dote ai Platamone attraverso il matrimonio di Rosalia Moncada Branciforte (1758-1802), ultima discendente della famiglia, che aveva sposato Baldassarre Platamone dei Duchi di Belmurgo.[3]
Il palazzo, sotto l'antica denominazione di Convento di Sant'Anna, ospitò una comunità di suore fino a oltre la metà dell'Ottocento.
L'architettura
del palazzo
La planimetria originale risale agli inizi del XIV secolo, successivamente il palazzo venne modificato agli inizi del Settecento dai Moncada.
Il terribile nubifragio che si scatenò il 30 settembre 1837 nelle campagne adiacenti a Messina, colpendo, in particolar modo, i casali compresi fra Larderia e Bordonaro ridusse il palazzo a un rudere.
Negli anni Duemila sono stati svolti i lavori che hanno riportato alla luce il piano terreno e i lavori di ricostruzione di quanto andato distrutto dalle alluvioni e dal logorio del tempo.
Oggi la facciata è scandita verticalmente dalle finestre che spiccano nelle loro cornici in pietra calcarea e longitudinalmente da un candido e lineare cornicione marcapiano. Il portone principale si staglia tra due lesene sormontate da un arco a tutto sesto di pietre bugnate, tutto realizzato in pietra calcarea.
Bibliografia:
[1] - G. Di Marzo, Dizionario topografico della Sicilia di Vito Amico, Salvatore Di Marzo, 1858, pp. 581-582.
[2] - I manoscritti della Biblioteca comunale di Palermo, vol. 1, Tipografia Virzì, 1884, p. 322.
[3] - Salta a: a b V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, vol. 4, Forni, 1981, pp. 643-644.
[4] - R.Martini, La Sicilia sotto gli austriaci (1719-1734), Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, 1989, p. 218.
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